Chissà come stai lassù

 

È il 10 settembre 2021. Riccardo Fabbriconi, che si fa chiamare Blanco, pubblica una canzone che ha scritto l’anno prima, quando di anni ne aveva sedici e andava “per i diciassette”. Si intitola “Blu Celeste”

Il testo della canzone è un messaggio a un amico che non c’è più, nato nel mese d’Acquario e che avrebbe avuto diciotto anni nel 2020.

Ascoltandola, viene facile immaginare Blanco scrivere, di notte, seduto a una scrivania nella sua stanza, mentre guarda il cielo che è “blu celeste”, “blu inchiostro”, un mare in cui immaginarsi pesci o addirittura squali.

La localizzazione temporale ha significato solo fintanto che si vive un certo momento e così non ha molta importanza che questa scena immaginata si svolga nel 2020. Potrebbe svolgersi anche molto molto prima…

È il 1742 e Thomas, un ragazzo inglese di ventisei anni, è nella sua stanza, di notte, e sta scrivendo. Da settimane i suoi pensieri sono abitati sempre dallo stesso volto: quello di Richard, il suo migliore amico. Si sono incontrati a 13 anni, erano compagni di scuola a Eton, e sono diventati migliori amici. Avevano la stessa età, sono cresciuti insieme.

A sinistra, Thomas. A destra, Richard.

Poi quell’anno Richard è morto, e Thomas non sa come gestire il dolore che prova. Sono tempi in cui l’espressione emotiva in società ha poco spazio ma ne ha molto nell’arte. Allora Thomas inizia a scrivere e la prima poesia che compone è proprio per il suo amico, per onorarne la memoria.

Si intitola “Sonnet on the Death of Mr Richard West”, “Sonetto per la morte di Mister Richard West”.

In essa, Thomas racconta di quando la mattina si sveglia, al sorgere del sole. Tutto è calmo intorno a lui, tutto è come sempre: gli uccellini cantano, la luce avanza sui campi fuori dalla finestra… Poi in quella quiete si fa largo un pensiero: il suo amico non c’è più.

Non appena affiora il ricordo, Thomas sente il dolore colpirlo: il dolore della mancanza, dell’incomunicabilità. Non vedrà mai più quella persona. Se potesse esprimere un desiderio sarebbe di potergli dire quanto gli manca, che non si è dimenticato di lui, ma questo non è possibile. Il dolore si fa ancora più acuto, diventa disperazione sorda.

L’ode di Thomas Gray (questo il suo cognome) e la canzone di Blanco sono distanti 279 anni ma il sentimento di cui parla Thomas è lo stesso di cui parla Blanco. Nel caso di “Blu Celeste” è notte, non mattina, ma il viaggio emotivo è lo stesso: Blanco guarda il cielo e vorrebbe parlare con il suo amico, ma non può, si chiede se da lassù lui possa sentirlo, gli dice le cose che vorrebbe dirgli cercando così di calmare il tormento che sente.

Il testo di Blanco, come quello di Thomas Gray, è un’elegia: una poesia privata, intima, scritta per esprimere sentimenti intensi, uno su tutti il dolore per la perdita di qualcuno.

Le elegie sono state usate per secoli per immortalare il ricordo di qualcuno e nell’Ottocento hanno vissuto un momento di particolare successo quando una serie di poeti si sono riuniti intorno alla pratica di scrivere riflessioni sulla morte, quindi anche molte elegie. Erano quelli che oggi chiamiamo “Graveyard Poets”, i “Poeti Cimiteriali”.

Il capogruppo involontario della cosa? Proprio Thomas Gray, che con la sua ode all’amico aveva toccato un nervo scoperto e dato voce a un sentire forte, appassionato, anche disperato. Quel sentire aveva evidentemente risuonato con molti giovani del tempo e questo nonostante Thomas Gray non si credesse un vero e proprio poeta. Passò la sua vita a fare il professore di storia e diede alle stampe solo dodici poesie in tutto. Sarebbe come, per un cantautore di oggi, pubblicare un solo album.

Eppure è rimasto nella storia. 

Probabilmente perché non ha avuto paura di scavare dentro di sé e mettere a nudo la parte più cruda e sanguinante del suo dolore. Ovviamente lo ha fatto con un linguaggio e secondo i canoni del tempo, e oggi la sua può sembrare solo l’ennesima poesia arzigogolata, ma non è così… Così come “Blu Celeste” non è solo l’ennesima canzone ne-ne-ne da ascoltare mentre fai la spesa. Se si fa caso al testo, non è difficile capire di trovarsi davanti a qualcosa di speciale. 

Speciale di per sé, come espressione di un individuo, ma anche in quanto recente manifestazione di una tradizione poetica antica, che tesse un filo fatto di parole e sentire comune: a un capo ci siamo noi, persone degli anni Venti del Duemila, all’altro ci sono tutte le generazioni che ci hanno preceduto. E in quei sentimenti che sempre ci accompagnano come umanità, lì, proprio lì, è dove si nasconde l’eternità.


Serena Zampolli

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