E così mi trovo a New York. E New York è una città piena di opportunità, soprattutto in campo artistico. Ho fatto voto di non farmi scappare nessuna occasione per imparare qualcosa di nuovo e utile alla mia ricerca di dottorato e alla mia vita, e ho inaugurato l’impegno partecipando all’evento “When Stories Mutate” organizzato da Lance Weiler per il Digital Storytelling Lab della Columbia University.
Seguo questo laboratorio da un po’, in particolare in relazione al loro progetto su Sherlock Holmes e la narrazione attraverso applicazioni dell’ Internet of Things. L’evento di ieri inaugurava un nuovo filone, un nuovo progetto che Lance e compagni hanno immaginato e che si concentrerà sul romanzo di Mary Shelley “Frankenstein”.
L’evento si è svolto al Lincoln Center, una cornice che attiverebbe i neuroni anche di un morto. (…per restare in tema)
Intro: Welcome & Introduction
La serata è iniziata con un’introduzione di Lance Weiler, che si è presentato e ha spiegato che cos’è il DSL e che cosa fa. E’ poi passato a parlare del progetto, a cui d’ora in poi saranno dedicati gli incontri che ogni mese Weiler organizza a nome del DSL al Lincoln Center.
Weiler è un regista e un professore di cinema alla Columbia, ma lui ama definirsi un “practitioner”, ovvero ama fondare il proprio lavoro sulla sperimentazione pratica e collaborativa di idee. Gli incontri al Lincoln sono una componente di questa pratica esplorativa, a cui si aggiungono le discussioni e le sperimentazioni che porta avanti con gli studenti del suo corso alla Columbia e le sue indagini personali.
Dopo avere lavorato per più di due anni su Sherlock Holmes, Weiler ha sentito il desiderio di iniziare a esplorare un nuovo scenario ed è nata l’idea di questo nuovo progetto, che si svilupperà a partire dal romanzo “Frankenstein” di Mary Shelley.
Durante gli incontri mensili, i partecipanti lavoreranno sulla costruzione di framework collaborativi ispirati dal romanzo, con l’intento di esplorare come le storie possono aiutarci a capire meglio il mondo intorno a noi.
L’obiettivo finale e pratico di questo progetto è la costruzione di un bot che avrà il ruolo di dottor Frankenstein, con cui sarà possibile conversare.
Prima parte: A fireside chat between Robert Horton, a film critic for the Seattle Weekly and Film Comment magazine contributor. He is the author of Frankenstein (Columbia University Press/Wallflower, 2014).
(in cui si parla principalmente di “Frankenstein”, letteratura e cinema. Per la parte laboratoriale e tecnologica si può saltare direttamente alla seconda sezione)
Dopo la presentazione, Weiler introduce l’ospite della serata, in collegamento via Skype. Si tratta di Robert Horton, professore di cinema e critico, autore di un libro pubblicato recentemente in cui la storia di Frankestein viene analizzata nella cornice del romanzo omonimo ma anche e sopratutto alla luce dell’impatto che ha avuto sulla cultura popolare dalla sua pubblicazione.
A Seattle stava piovendo, con lampi e fulmini, e Horton ironizza su quel clima particolarmente adatto. Horton ha quindi iniziato a parlare del libro, delle sue ricerche e ha spiegato di essere rimasto affascinato dalla capacità che la storia di “Frankenstein” ha avuto di coinvolgere pubblici molto diversi fra loro, in tempi diversi. Proprio per questo, nel suo saggio ha analizzato in che modo il libro è stato accolto dal suo pubblico e come è entrato nell’immaginario popolare, attraverso non solo il romanzo, ma film, giocattoli e addirittura pubblicità di cereali.
Horton ha sottolineato anche il suo interesse per il nuovo progetto del DSL, che si ripropone di creare un altro “Frankestein monster”, con l’utilizzo della tecnologia. Una interessante aggiunta alla discussione ricorrente riguardo la creazione di Frankenstein o di un Frankestein monster.
Weiler ha quindi chiesto a Horton la sua opinione su quali sono gli elementi fondamentali che hanno decretato il successo di questo libro. Secondo Horton, Shelley ha sviluppato delle idee molto complicate in modo sapiente e affascinante. I suoi temi sono importanti per l’essere umano ma allo stesso tempo meno esplorati di altri: l’impulso di creare, di dare la vita, le conseguenze della creazione che superano l’immaginazione del creatore stesso. La scrittrice è cresciuta in una famiglia in contatto con le idee innovative del tempo e il suo mondo intellettuale. Per l’epoca, la storia di Frankenstein era fantascienza: la Shelley ha immaginato che cosa sarebbe potuto succedere se l’umanità avesse avuto a disposizione una tecnologia avanzata che per l’epoca sembrava plausibile, benchè non ancora realizzata.
Weiler ha chiesto a Horton di parlare di Mary Shelley come individuo, e Horton ha risposto raccontando dei genitori della scrittrice, della sua precoce intelligenza e della sua vena ribelle. La madre di Mary Shelley morì dieci giorni dopo la sua nascita, per complicanze conseguenza del parto. Inoltre, la Shelley ebbe un aborto poco prima di iniziare a scrivere il libro. Alla luce di questi fatti, l’ossessione del romanzo per l’atto di dare la vita e il rapporto creatore-creatura assume nuovi connotati.
Tutti sanno che “Frankenstein” nacque come parte di una sfida estiva fra intellettuali a chi avrebbe scritto la storia più spaventosa, è un anedotto parte della cultura popolare. Ma a Horton la sfida sembra una scusa per tirare fuori da Mary qualcosa che era latente in lei da anni.
Paradossalmente, quel romanzo fu anche la sua fortuna e la sua ancora di salvataggio. Dopo la morte precoce del marito, Mary Shelley visse ancora un buon numero di anni e, poichè “Frankenstein” si rivelò un best seller da subito, visse una vita piuttosto agiata.
Per quanto riguarda l’immaginario cinematografico ispirato dal romanzo di Mary Shelley, il film più noto è probabilmente quello del 1931 con Boris Karloff. Il regista, James Whale, decise di farlo perchè secondo lui era l’opera più drammatica da mettere in scena. Poi c’è “La moglie di Frankenstein” del 1935, che a sua volta è entrato nella cultura popolare, diventando un elemento umoristico più che drammatico. Poi si possono nominare vari altri film inglesi degli anni Cinquanta che hanno usato il personaggio del dottor Frankenstein, seppure con altre linee narrative.
L’eredità è evidente anche in moltissime altre opere, che non trattano direttamente la figura di Frankenstein o della sua creatura, ma sono chiaramente influenzati da quell’immaginario. Per citarne una, “Rocky Horror Picture Show”.
Frankenstein è diventato parte della cultura pop, passando da una storia di paura a un personaggio familiare e riconoscibile al punto da essere usato come testimonial dei cereali.
Questa familiarità sviluppatasi nei confronti di un personaggio creato per essere spaventoso ha portato Horton a fare una riflessione sul concetto di “mostro” e di ciò che noi definiamo tale:
Weiler ha quindi chiesto a Horton la sua opinione sul rapporto con la tecnologia raccontato in “Frankenstein”. Horton ha risposto che nei film di “Frankenstein” che mostrano la tecnologia usata dal dottore, i vari registi hanno cercato di dare alle macchine un aspetto che fosse credibile, che facesse pensare che sì, quella macchina poteva funzionare e riportare un corpo in vita.
L’idea di andare a esumare corpi in cimitero per dare al “mostro” aspetto umano fa pensare ai tentativi di oggi di dare aspetto umano alle AI, per esempio i robot umanoidi.
Nel libro il dottore è uno studioso brillante che arriva a concretizzare il suo progetto più ambizioso. Ma quando ci riesce, arriva poi a rifiutare il “mostro”, che ricerca il contatto con lui come creatore, come padre. Sta rifiutando la sua opera perchè prova orrore per ciò che ha creato?
Le storie che immaginano la creazione di creature animate da intelligenza artificiale solitamente finiscono con la razza umana distrutta da queste entità. Horton si chiede come mai siamo così pessimisti. Forse è la paura di essere sostituiti, ma in realtà non ci sono ragioni valide per una visione così catastrofica.
Nel film “AI” il robot esprime sentimenti, entra a fare parte della famiglia. Questa è la parte difficile, per i film moderni come per Shelley: noi sappiamo che dentro quel corpo non c’è un’anima, eppure ci turba considerarlo non umano perchè è così perfettamente somigliante con ciò che definiamo “umano”.
Weiler ha quindi dato spazio alle domande dal pubblico. Una persona ha chiesto a Horton se secondo lui ci sono connessioni fra “Frankenstein” e altre opere contemporanee, come “Dottor Jekyll e Mister Hyde” o “Il ritratto di Dorian Grey”.
Horton ha risposto che il successo di “Frankenstein” fu così ampio che non è difficile pensare che le sue atmosfere abbiano ispirato o comunque influenzato opere successive. Mary Shelley ha praticamente inventato un genere. Horton non si spingerebbe, però, fino a tracciare una linea di ispirazione diretta.
Un’altra persona ha chiesto quali connessioni ci fossero fra l’opera di Mary Shelley e la società del tempo, e se è possibile definire delle connessioni fra l’opera e la società di oggi.
Horton ha risposto che la Shelley ha scritto nell’epoca che viveva le conseguenze della Rivoluzione Francese, quindi un sentimento diffuso di turbolenza e insicurezza in Europa.
Per quanto riguarda l’identificare un periodo recente in cui “Frankenstein” è stato collegato di più alla società, Horton ha notato che veniva citato spesso nel periodo della guerra in Iraq, in riferimento alle decisioni impulsive del governo americano che hanno finito per “creare un Frankenstein”. In generale “Frankenstein” sembra essere richiamato all’immaginario ogni qual volta si scatena un sentimento diffuso di pessimismo, di imminente tragedia.
Un’altra persona ha quindi condiviso una riflessione personale: spesso i film dell’orrore parlano delle paure che la società sta vivendo in quel periodo, e il messaggio di Frankestein sembra essere che la vita non è così unica, così speciale, basta che qualcuno metta insieme dei pezzi di corpo e gli dia vita. Forse è questo che affascina e allo stesso tempo spaventa del romanzo?
Horton ha risposto che la Shelley è cresciuta in una famiglia non religiosa, quindi questo potrebbe avere avuto un impatto sulla sua visione filosofica della vita, e ha concordato con la riflessione dello spettatore: è vero che l’orrore di “Frankenstein” è che mette in luce come la vita non sia così speciale. E questa è una lettura davvero affascinante.
Weiler ha quindi rigraziato Horton per il suo intervento e la sala lo ha salutato con un applauso. Si è conclusa la prima parte dell’evento.
Seconda parte: Collaborative storytelling prototype that mixes story, play, design, Frankenstein and AI.
Lance Weiler ha preso il controllo della situazione esordendo con “E adesso giochiamo”. Ha spiegato che quello che sarebbe seguito sarebbe stato un esperimento che si tentava per la prima volta, chiedendo la collaborazione del pubblico nel lasciarsi andare con fiducia per scoprire insieme che cosa sarebbe successo.
Ha chiesto quattro volontari, quattro bravi raccontatori di storie (storytellers). Dopo una prima titubanza (volevo starmene tranquilla a scrivere il mio resoconto) e vedendo che nessuno si alzava, mi sono offerta e mi sono alzata per raggiungere Lance nella parte frontale della sala. Da qui in poi, quindi, vado a memoria con il resoconto. Spero sarà comunque abbastanza preciso.
Altri tre coraggiosi si sono alzati dai loro posti e mi hanno raggiunta, e siamo stati divisi in due coppie. Ogni coppia si è dotata di un laptop e Weiler ha assegnato due programmi diversi per la creazione di chat bot con cui interagire via text messages. Io e il mio compagno abbiamo usato un programma accessibile da browser che si chiama OnSequel e l’altra coppia … purtroppo non lo so ma vedrò di scoprirlo. (Acc!)
Alle persone in sala è stata quindi mostrata una lista delle quattro emozioni elementari (rabbia, gioia, paura, tristezza) e gli è stato chiesto di pensare a un ricordo vivido legato a una di quelle emozioni. Dovevano pensare all’ultima volta che si erano sentite in quel modo in modo intenso, e poi disegnare su uno dei fogli distribuiti un’immagine collegata a quel ricordo. Sul retro, dovevano scrivere l’emozione relativa.
Quando tutti avevano completato i loro disegni, Weiler ha chiesto di dividersi in gruppi e raccontare e discutere le loro esperienze.
Poi ha invitato le persone a disporre i loro disegni sulle sedie, e muoversi nella stanza osservando quelli degli altri.
Intanto sullo schermo è comparsa una slide con scritto “Nel futuro l’umanità avrà bisogno di … e …” (“In the future humanity will need …. and …”). I gruppi sono stati invitati a ispirarsi alle immagini che vedevano e trovare delle parole per completare la frase. Quelle parole sono quindi state associate ai disegni che li avevano ispirati.
Nel frattempo le due coppie lavoravano febbrilmente per capire come usare i due software. Quello su cui ho lavorato io permetteva la creazione di strutture narrative a nodi, che poi generavano una conversazione con il bot via messaggi testuali sul cellulare. Mentre le altre persone facevano tutte le cose di cui sopra, io e il mio compagno abbiamo creato un primo abbozzo di struttura narrativa.
Poi è venuto il momento in cui tutto il materiale prodotto dai partecipanti è stato dato alle due coppie che lavoravano sui programma e questi lo hanno usato per dare forma alla loro storia su Frankenstein.
La storia che io e il mio compagno abbiamo inventato partendo dagli spunti dati si svolgeva nel futuro: la Terra è diventata invivibile a causa di una tempesta solare, gli uomini non sono più in grado di stare sulla superficie e portare a termine i lavori richiesti per la loro sopravvivenza. Decidono quindi di creare dei robot che lavorino per loro, ma questo genera odi e malumori nei confronti delle macchine da parte degli umani che si sentono soppiantati e inutili. Questa parte è stata ispirata da due delle parole chiave che ci sono state date: “disastro ambientale” e “crisi del lavoro”.
Il Frankenstein monster della nostra chat bot è il primo esemplare della sua specie. Si risveglia e non sa che cosa è accaduto. Chiede aiuto all’utente.
A seconda delle scelte che fa, l’utente può aiutarlo oppure no. Se lo aiuta, dimostra “compassione”, un’altra delle nostre parole chiave. La parola era abbinata all’immagine di un cane e così abbiamo inserito il ricordo del salvataggio di un cane dal canile come parte della storia dell’utente. Se l’utente dimostra compassione c’è un happy ending. Altrimenti, il mostro si libera dalle cinghie che lo legano e uccide l’utente che non gli ha dimostrato compassione, rendendo questo sentimento il punto di svolta della storia.
Questa era solo il primo incontro di questo progetto e sono curiosa di vedere dove andrà. Weiler ha alle spalle l’esperienza con Sherlock che lo aiuterà sicuramente a rendere ancora più efficace questo nuovo progetto, e io non vedo l’ora di continuare a esplorare le possibilità che la tecnologia offre alla narrazione oggi.
Post scriptum:
L’evento si è concluso con un drink in un ristorante lì vicino durante il quale ho avuto occasione di parlare con Weiler e con altri partecipanti all’evento, aggiungendo altri spunti alle già interessantissime riflessioni fatte durante il laboratorio.
Grandi avventure nella Grande Mela per Little Serena.
1 COMMENT
Qualcuno ha letto il post e poi ha scritto questo http://saperlalunga.blogspot.it/2017/03/lavventura.html