Le istruzioni per la terza settimana arrivano nella mia casella email il 6 settembre. Io apro suddetta email il 13 settembre.
C’è del disagio.
Come se non bastasse, non sono riuscita a completare la Design Challenge della seconda settimana (discutere un “enchanted and trasformative moment” con un altro partecipante e trarne dei design principles).
Per poter beneficiare di questo MOOC al 100% dovrei averlo intrapreso in gruppo con altre persone interessate come me. Trovare un compagno attraverso Facebook si è dimostrato complicato. Mettici che tanti si iscrivono solo per curiosità ma poi non seguono, mettici la differenza di fuso orario, mettici LA VITA … Eccomi qua. In solitaria peggio di Tom Hanks emaciato e spiaggiato che almeno parlava col ba’on (trad. pallone).
Comunque sì, mi sento in colpa e mi dispiace, ma a essere onesta questo MOOC dei rapporti umani li ha generati.
Non appena iniziato il corso mi ero iscritta alla pagina Facebook del gruppo italiano legato al progetto “Sherlock Holmes and the Internet of Things” ed ero stata accolta con entusiasmo e generosità dalle amministratrici Sabrina Giacardi, Valentina Maffucci e Valeria Amendola. Io e Sabrina abbiamo, poi, avuto l’occasione di parlare via Skype per completare la 5x challenge e scambiare delle opinioni.
Il caso ha voluto che pochissimi giorni dopo la nostra videochiamata lei e Valentina abbiano ricevuto la notizia che la versione italiana di “Sherlock Holmes & the Iot” di cui erano le artefici aveva ricevuto una menzione speciale per un premio consegnato all’interno della Mostra del Cinema di Venezia.
E così sabato, ci siamo incontrate a Venezia. (yuppi!)
Dopo la cerimonia di premiazione, ho avuto il piacere di passare un po’ di tempo con loro e scoprire che sono due donne intelligenti, perseveranti, creative e talentuose.
Torniamo al MOOC e alla terza settimana. Come sempre, il primo stimolo proposto dalla mail è la registrazione audio della conferenza della domenica pomeriggio. Come al solito la salto, rimandandola a un momento in cui avrò le mani occupate e le orecchie libere …
Quella che segue è la sezione “Design/Play/Story/Code”, la più corposa dal punto di vista di contenuti trasmessi dai tre insegnanti ai corsisti e quella a cui do più spazio nei miei post (segue esempio)
Jorgen Van Der Sloot e il processo di creazione collaborativa delle idee
Nella presentazione del MOOC, Jorgen Van Der Sloot aveva detto che il corso avrebbe avuto delle tappe sintetizzate dall’acronimo E.D.I.T. Durante la prima settimana ha spiegato la E di Empatia, durante la seconda settimana la D di Definire e ora è tempo della I di Ideare (ideate).
Questa fase è la fase in cui si generano centinaia di idee, da cui poi si selezionerà quella su cui vogliamo lavorare. Per iniziare il brainstorming è consigliabile partire dalle design questions (che avremmo dovuto individuare durante la seconda settimana) e, sulla base di esse, cominciare a mettere in parole le idee che ci vengono. E’ un processo collaborativo, che funziona particolarmente bene se si applica una mentalità “Sì, e poi …”: quando un’altra persona esprime un’idea, invece di trovarne i difetti o rifiutarla perché non ci convince totalmente (o perchè ci ostiniamo a preferire la nostra), è consigliato ribattere “rimbalzando” quell’idea e aggiungendo qualcosa in più. Se ci si sforza di usare queste parole, “Sì, e poi …”, ci accorgeremo di riuscire a tirare fuori moltissime idee in poco tempo. Da questa miniera, potremo poi scegliere il nostro diamante, ovvero l’idea che ci piace di più e su cui vogliamo lavorare.
Nick Fortugno parla dell’Internet of Things
Quando si parla di Internet of Things, si pensa a oggetti che interagiscono fra di loro, se ne intuisce la potenzialità, si capisce che è una cosa cool. Ma se vogliamo pensare all’ IoT nella vita quotidiana, come lo vediamo? Che cos’è davvero? Fortugno si è fatto questa domanda e si è anche dato delle risposte.
Innanzitutto, l’ Internet of Things è molto DIY, ovvero Do It Yourself, ovvero Fattelo da solo (“Rangete”, diremmo in Veneto). La filosofia DIY è la filosofia dell’artigiano, che impara l’arte e non la mette da parte, ma si procura i materiali e poi FA cose. E’ l’idea di costruire l’oggetto dei tuoi desideri con le tue mani invece di andarlo a comprare. Pensate ai tutorial di YouTube, pensate a WikiHow, a Pinterest, a Nonna Papera.
A prova di quanto dice, Fortugno mostra una foto di studenti della Parsons (la scuola di design in cui insegna) impegnati a assemblare oggetti seduti intorno a un tavolo. Questi studenti sono dei makers, dei “facenti”, degli artigiani di nuova generazione.
Questo è possibile perché buona parte del software usato in questo settore è ad accesso libero (open source), e molte delle componenti fisiche e dei moduli utilizzati sono il frutto del lavoro e dell’ingegno di altri appassionati. E’ un’industria piccola (per il momento) che attira i profili più disparati ma che si mantiene ancora “sporca” e un po’ carbonara.
L’altra cosa che Fortugno porta alla nostra attenzione è che magari non sappiamo spiegare cos’è, ma probabilmente c’abbiamo già avuto a che fare con l’IoT. Fa l’esempio delle chiavi magnetiche degli alberghi, che funzionano con dei sensori NFC. Probabilmente ci è capitato di usarle e l’abbiamo fatto: abbiamo avvicinato la chiave alla porta e la porta si aperta (Spesso non al primo tentativo … E qui ci starebbe la true story di momenti di panico quando ti trovi davanti alla porta della tua camera d’albergo che rimane ostinatamente chiusa e sono le due di notte e il portiere non si vede e non sai cosa fare). Nell’aprire quella porta d’albergo abbiamo assistito all’interazione fra due oggetti che ha dato quel risultato grazie alla tecnologia contenuta in essi, ma proprio perché si trattava di oggetti fisici non ci siamo resi conto della tecnologia che stavamo sfruttando.
Magia.
Fortugno quando parla di IoT parla spesso di magia, perchè questa è la sensazione: gli oggetti fanno cose e fanno succedere altre cose, ma il meccanismo non si vede. Vediamo il gioco di prestigio e rimaniamo di stucco, ma non vediamo (e non capiamo) il trucco.
(OMG Ho fatto la rima! Sono un Barbapapà!)
Certo, l’idea che gli oggetti zitti zitti si scambino informazioni su di noi apre la porta a tutta una serie di riflessioni sulle informazioni che concediamo senza rendercene conto. Ma concentriamoci sulla magia …
Fortugno usa come esempio un suo progetto chiamato “Will-o-wisp”. Il concetto alla base di questo progetto è questo: ricreare a livello fisico la sensazione di cadere in un buco di internet. Che cos’è un buco di internet? Non è un buco nero. E’ qualcosa di molto peggio.
Avete presente quando state lavorando e aprite Facebook? E dalla home page vedete una certa notifica che attira la vostra attenzione e cliccate sul profilo di qualcuno? E poi da quel profilo cliccate su un altro profilo (“Guarda, questo era alle medie con me, Madonna che brutto xe diventà…”) e poi un altro e un altro fino a diventare uno stalkeratore pazzo? (Dai, dai, ci siamo passati tutti).
Ecco. Quello è finire in un buco di internet. Facebook non interviene mai a dire “Oi, dai, basta, a posto così”. Andiamo avanti e avanti fino a che non ci viene lo schifo di noi stessi e smettiamo.
Per ricreare questo fiorire di emozioni, Fortugno ha pensato di costruire un labirinto con dei tubi luminosi in una stanza buia. Le luci si accendono solo in corrispondenza della sezione in cui stiamo camminando e per qualche passo successivo, ma non possiamo vedere né il percorso che ci siamo lasciati dietro nèéquello che ci aspetta.
Fortugno prende questo progetto come esempio di esperienza realizzata utilizzando tecnologie Iot e elenca le sue componenti:
- EL Wire, cavi luminosi (neanche troppo costosi)
- Beacons, ovvero sensori Bluetooth che percepiscono la vicinanza del soggetto e reagiscono di conseguenza
- Raspberry Pi, programmato ad hoc perché interagisca con i beacons e fatto indossare a chi cammina nel labirinto
- OCS (Open Sound Control), un codice disponibile su GitHub, facile da usare e perfetto per creare interazioni semplici
Proprio parlando di quest’ultima componente Fortugno specifica una cosa: è idea diffusa che programmare sia una cosa da esperti, ma in realtà molto dipende dagli scopi e dagli utilizzi che ci si prefigge. Il codice che lui usa in questo progetto consiste in una ventina di righe e lo ha adattato da quanto già fornito dal programmatore. In rete sono presenti pezzi di codice già pronti e tutorial dettagliati che permettono anche al principiante più assoluto di creare oggetti capaci di interagire con altri oggetti.
Fa la metafora del turista che decide di andare a visitare una nazione straniera: non imparerà perfettamente la lingua di quel posto, ma può memorizzare delle frasi o comunque imparare abbastanza da ordinare il proprio cibo al ristorante o chiedere indicazioni. Il codice funziona allo stesso modo: diventare programmatori e avere controllo e comprensione completa del suo funzionamento richiede tempo e dedizione, ma è possibile ricorrere alle risorse “semplificate” e raggiungere il proprio scopo in modo soddisfacente.
Lance Weiler e la “fisicalità” della narrazione
Dice Lance …
(Sempre parlando della sperimentazione con Sherlock & IoT dell’autunno 2015)
Le design questions che avevano individuato (vedi Settimana 2) li ha ai aiutati a ragionare sulla “fisicalità” della narrazione. Per l’evento, avevano a disposizione uno spazio come quello del Lincoln Center. Come usarlo nel modo più efficace? Volevano che la storia uscisse dallo schermo e arrivasse nel mondo reale (“bleeds out of the screen and into a real world”). Come farlo accadere? Non volevano guidare/controllare troppo l’esperienza ma allo stesso tempo si ritrovavano a gestire uno spazio veramente grande.
Per la preparazione della Global Challenge hanno usato il MOOC (la versione n. 1 di quello che sto facendo io, che è il secondo). Weiler lo definisce “non un corso, ma una collaborative area in cui i partecipanti potevano condividere quello che stavano facendo.
Come prendere il Lincoln Center e creare un’esperienza magica? La risposta l’ha già data Nick Fortugno nel video di cui sopra: interazione invisibile fra oggetti, senza la mediazione di uno schermo. In altre parole, Internet of Things.
Dopo avere creato l’ambiente collaborativo del MOOC, hanno fatto scegliere ai partecipanti delle storie di Sherlock Holmes che loro trovassero particolarmente d’impatto, gli hanno fatto scegliere un oggetto che vi compariva e poi li hanno guidati nel processo per trasformare quell’oggetto in un oggetto “incantato”.
Nota: Fra gli esempi che Weiler menziona c’è anche la scimmietta Vodoo della squadra di Sabrina e Valentina … 🙂
Nell’evento al Lincoln Center hanno lavorato come ci ha raccontato nel suo intervento della prima settimana e in quell’occasione è successa una cosa buffa: non hanno avuto il permesso di creare le silhouette dei corpi delle vittime con lo scotch, ma gli sono stati messi a disposizione degli attori per impersonare gli assassinati (vai a capirli, questi ammerigani). Gli organizzatori hanno riflettuto un bel po’ su come impiegare questa risorsa, e alla fine hanno optato per un costume tutto nero che rendesse gli attori delle silhouette. Weiler riporta come questo abbia permesso a tutti i partecipanti di crearsi una propria immagine del volto della vittima, tanto che non sono riusciti a trattenere un “GASP!” di sorpresa quando gli attori si sono tolti il cappuccio rivelando il loro vero volto.
Questa, dice Weiler, è stata la chiave: l’elemento umano dell’esperienza. A un certo punto si era scatenato il panico fra gli organizzatori: il WiFi non funzionava più. Per fortuna la componente fisica e umana dell’esperienza era stata valutata e soppesata e architettata con grande cura, e questo ha fatto sì che i partecipanti non risentissero della falla tecnica.
Seguono vari stimoli per le sezioni di approfondimento autonomo su Augmented Reality e Virtual Reality, sullo Sherlock Holmes letterario e la challenge della settimana … Che non ho neanche iniziato a leggere se no mi vengono già i sensi di colpa calcolando con quanto poco successo mi sono interfacciata con le sfide nelle settimane passate …
Ma non perdo la speranza, eh. Ce la farò! Ce la farò!
1 COMMENT
[…] Non commento quanto io sia in ritardo nello svolgere i compiti di questo MOOC. Basta guardare il mio resoconto della scorsa settimana per capire il mio imbarazzo. O anche quello della settimana prima. O di quella prima […]