Domenica 3 luglio 2016
Le divinità che avevano agito sabato, hanno continuato il loro lavoro la domenica e all’uscita dalla tenda sono stata accolta da un sole splendente. E dalla notizia che tutto il campeggio era senza acqua a causa di una perdita che aveva svuotato la cisterna durante la notte. Ma questi sono dettagli.
E’ anche vero però che la questione acqua, e la conseguente ricerca di un water con sciacquone funzionante, hanno ritardato un po’ il mio piano d’attacco per la giornata: il primo spettacolo a cui ho assistito è stato quello di Clare Murphy e Tim Ralphs alle 13. Ho già tessuto le lodi di Tim Ralphs, ora è il momento di concentrarsi su Clare.

Clare Murieann Murphy è una storyteller nata e cresciuta a Dublino, ma ora residente a Londra. Attiva come narratrice dal 2006, membro regolare del Crick Crack Club, ha collaborato con il National Theatre, la Royal Shakespeare Company e altre prestigiose istituzioni. Ho avuto modo di conoscerla e parlarci un po’ qualche anno fa al festival internazionale di storytelling di Raccontamiunastoria a Roma e posso testimoniare che è anche un essere umano adorabile.
Sia Murphy che Ralph erano presenti al festival anche con altri spettacoli, da soli o in combinazione con altri storytellers, ma il loro progetto comune “Tales of the Rabbit God” (Racconti del Dio Coniglio) aveva anche la particolarità di essere in prima assoluta, presentato per la prima volta proprio a Beyond the Border 2016.
Murphy e Ralph sono due talenti autentici, dei narratori di grande bravura, e la combinazione non poteva che essere un successo. “Tales of the Rabbit God” raccoglie storie di amore omosessuale (l’identità sessuale era uno dei temi del festival) provenienti da varie tradizioni del mondo. Si parte dalla Cina, per andare in Medioriente, poi in Giappone, poi in Grecia, e infine tornare in Cina. Il Dio Coniglio è una divinità cinese che protegge l’amore fra persone dello stesso sesso. Il suo culto in Cina è secolare, nonostante l’opposizione ricevuta dal potere politico a partire dal 1700 ne abbia ampiamente diminuito la popolarità.
“Tales of the Rabbit God” è uno spettacolo che celebra l’amore in tutte le sue forme e lo fa con grazia. Murphy ha un talento speciale per far sentire il pubblico coinvolto, strappandogli non poche risate. Questo spettacolo è uno di quegli spettacoli a cui ci si diverte, si ride, si sospira, ma poi si va a casa e si comincia a pensare: le storie sono state inalate e si sono sedimentate da qualche parte dentro di noi, senza che nemmeno ce ne accorgessimo; lì hanno iniziato a germogliare. Uno spettacolo davvero ben riuscito.

Finito questo, mi sono lanciata verso il Pavillion per assicurarmi un posto alla performance di TUUP, che sta per The Unprecedent Unorthodox Preacher. Nato in Guyana e cresciuto a Londra, TUUP è attivo come storyteller dal 1981 e uno dei membri originali della West London Storytelling Unit iniziata da Ben Haggarty. Le sue radici in paesi ben più caldi e colorati del Regno Unito sono evidenti nel suo modo di raccontare, a metà fra la predica di un pastore battista e uno spettacolo teatrale. TUUP chiede al pubblico di cantare mentre racconta, fa domande sulla storia per vedere se sono attenti, e soprattutto inizia la storia (e a volte la interrompe) urlando “Crick?”, a cui bisogna rispondere “Crack!”, e poi “Honour?” a cui il pubblico risponde “Respect!”. Si tratta di una formula antica utilizzata dai cantastorie di Haiti (e a cui chiaramente Haggarty si è ispirato per dare il nome al suo Club).
La storia raccontata da TUUP era la storia di “Crowdog”, al secolo Jeffrey, un bambino afroamericano di cui seguiamo il destino da quando ha sette anni a quando ne ha settanta, attraverso i tanti cambiamenti affrontati dagli Stati Uniti.
Finita la performance di TUUP, sono rimasta nel Pavillion per lo spettacolo di Dovie Thomason. Non l’avevo mai sentita raccontare, ma l’avevo notata nei giorni precedenti, avevo intercettato qualche dialogo fra lei e altre persone al tavolo della cena, e avevo deciso che dovevo andare a vederla.

Dovie Thomason vive negli Stati Uniti ma nelle sue vene scorre sangue Lakota. Ha costruito il suo patrimonio di storie native grazie alla nonna, che gliele raccontava con la stessa motivazione per cui erano state raccontate per secoli e secoli: insegnarle la vita. Mentre lavorava come insegnante, Thomason si è resa conto di quanto le storie fossero potenti ed efficaci per comunicare con gli altri e ha deciso di intraprendere la via dello storytelling. Questa decisione l’ha portata a viaggiare in tutto il mondo, e a studiare e raccogliere moltissimo materiale relativo alle storie tradizionali dei Nativi Americani. Alla ricchezza del materiale, Thomason ha saputo aggiungere un modo di raccontare naturale e intimo, e un pungente senso dell’umorismo. Dovie Thomason è una leggenda della narrazione delle storie delle First Nations e l’unica storyteller del festival che è riuscita a farmi piangere.
Lo spettacolo a cui ho assistito io si intitola “Buffalo Gals Won’t You Come Out Tonight?” ed esplora la figura della donna nelle storie tradizionali delle First Nations. Quando si parla di Indiani d’America si pensa subito a uomini a cavallo, frecce, inseguimenti, Balla coi Lupi. Sembra un mondo unicamente maschile, ma non è così: in quel repertorio le storie con protagonisti femminili sono molte e profondamente significative.
La prima storia che Thomason ha raccontato è stata quella della donna che va a vivere con i lupi. Non so spiegare perché, ma ascoltare Dovie raccontare quella storia mi ha fatto venire un groppo in gola e gli occhi lucidi. Evidentemente non è un caso che sia la storia che da il titolo al libro di Carola Pinker Smith “Donne che corrono con i lupi“. Richiama qualcosa dentro che non so spiegare, una sorta di comunione di spirito che sconquassa il corpo e la mente e non si riesce a controllare. Per me è stato un privilegio sentirla raccontare dal vivo, da Dovie Thomason che l’ha ricevuta in dono dalla sua famiglia, che ne è legittima proprietaria, e che la sa raccontare con la stessa calma, naturalezza e forza di una nonna che mette a letto la propria nipotina.

Dopo una cena veloce, mi sono diretta al Blue Garden, spazio performativo all’aperto per “Beowulf“, la performance che aspettavo con più ansia. Ed è stata fantastica! Jesper La Cour Andersen è un narratore e un performer fenomenale, a cui Troels Kirk Ejsing fa da spalla in modo brillante (fa il tappeto sonoro per l’intero spettacolo usando solo un BAGNAFIORI).
Per questo spettacolo, agli spettatori viene richiesto di sedersi in cerchio, e non appena la narrazione comincia arriva la sensazione di trovarsi in una grande sala vichinga, intorno a un fuoco, a sentir narrare le imprese del prode guerriero. Il pubblico viene coinvolto in continuazione ed è parte integrante dello spettacolo, così che ogni rappresentazione è unica.
“Beowulf” è una produzione del The Telling Theatre che è basato a Copenaghen in Danimarca e di cui La Cour Andersen è il direttore artistico. Negli ultimi sedici anni, ha prodotto spettacoli rappresentati in più di 1.700 performances in tutto il mondo. “Beowulf” è uno dei due spettacoli proposti anche in inglese. L’inglese di La Cour Andersen è ottimo, ma un pochino sgangherato talvolta, e questo dona ancora più carattere all’intera narrazione.
I due performer si esibiscono senza amplificazione e, parlando con La Cour Andersen dopo lo spettacolo, mi ha spiegato che questo è frutto di una scelta: vogliono creare una connessione con il pubblico e quella connessione non può essere sincera se è mediata da un apparato tecnologico. La Cour Andersen mi ha anche confessato che è rimasto molto sorpreso quando David Ambrose, il direttore artistico di Beyond the Border, li ha invitati al festival perchè il loro non è storytelling puro, ma è mischiato a elementi teatrali e di clownerie. Proprio mentre mi diceva questo è arrivato Ambrose con un grande sorriso e si è congratulato con loro, che lo guardavano increduli. Per quanto mi riguarda, “Beowulf” è un ottimo esempio di una delle tante forme che lo storytelling può assumere e credo che David Ambrose si direbbe d’accordo con me. Il solo fatto che si prendano così tanta cura del loro pubblico ne è la dimostrazione. Quando sono andata a congratularmi dopo lo spettacolo, non si capiva se ero più io a ringraziare loro per avermi fatta divertire o loro a ringraziare me per l’attenzione che avevo messo nel fruire dello spettacolo.
Questa è stata sicuramente la performance più divertente a cui ho assistito e sicuramente una delle mie preferite. Un’esperienza indimenticabile.
A seguire ci sarebbe stato il gran finale del Festival con una processione e un grande falò a forma di Shiva, ma io mi sono attardata a parlare con alcuni storytellers e me la sono persa.
Non ho perso, però, l’ultima performance del festival: “The Fate We Bring Ourselves – Greek Myths Unleashed” di Ben Haggarty. Avevo iniziato il festival con Ben Haggarty, mi sembrava giusto concluderlo con lui.
Per questa performance Haggarty ha raccontato degli episodi tratti dai miti greci con la solita incredibile bravura. Ma devo confessare che la mia mente era piena di tutte le storie sentite in quei giorni e il mio cuore era pesante per l’incombente fine, quindi ho seguito con meno attenzione di quella che avrei potuto avere.
Alla fine della performance di Haggarty e quindi del festival, è seguito un pellegrinaggio allo stand della birra (chiuso) che si è poi convertito in un pellegrinaggio alla sede del falò di Shiva (dove ci hanno impedito di tenere acceso un piccolo fuoco nonostante un’ora prima lì avessero bruciato un’installazione di quattro metri) che si è trasformato in uno spudorato atto di imbucaggio alla festa degli artisti nella sala comune della casa in cui avevo pernottato durante il workshop. Lì fra canzoni blues, chitarre, violoncelli e chiacchiere, si è tirato il mattino. E così, dato che alla sveglia mancavano solo poche ore, io e un manipolo di coraggiosi abbiamo deciso di andare fino al mare per vedere l’alba. Ed è così che è iniziato il mio primo giorno dopo il festival, è così che ho salutato le storie e Beyond the Border, è così che ho processato il fatto che era ora di scoppiare la bolla e uscire di nuovo nel mondo reale, in attesa fra due anni di tornare a vedere quel mare e sedere in quei tendoni ad ascoltare storie.