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Riassunto del laboratorio di storytelling tenuto da Paola Balbi e Michael Harvey come Summer School del Festival Beyond the Border
PRIMO GIORNO (martedì 28 giugno 2016)
Alcuni partecipanti al workshop conoscevano altri partecipanti, alcuni non conoscevano nessuno… Era importante creare un senso di gruppo e far conoscere le persone. Dopo un paio di “giri di nomi” seduti in cerchio, Michael ci ha chiesto di dividerci in gruppi di tre persone e chiacchierare fino a trovare tre cose in comune. Una volta tornati nel cerchio grande, ogni gruppo ha riferito i risultati.
A questo esercizio ne è seguito uno di presa di coscienza e possesso dello spazio: ci siamo mossi nella stanza rispondendo a vari stimoli, fino ad arrivare all’incontro con gli altri (“I know you. You are …”).
Ci siamo seduti nuovamente in cerchio, e Michael e Paola ci hanno parlato di che cosa volevano fare e di come erano arrivati a creare la struttura di questo workshop. Il laboratorio è una delle conseguenze del loro lavoro per lo spettacolo “Angerona”, nato dall’incontro fra il poema shakesperiano “The rape of Lucrece” e lo storytelling performativo.
“Quando crei uno spettacolo intersecando fonti diverse,” ha spiegato Paola, “devi prendere ogni materiale per quello che è.” Shakespeare e lo storytelling sono due cose diverse ma “la conoscenza di uno può migliorare l’altro e viceversa.”
Non bisogna dimenticare, inoltre, che l’opera stessa di Shakespeare è il punto di arrivo di un percorso. Molti studiosi concordano nel dire che per capire davvero che fonti siano alla base dell’opera shakesperiana bisognerebbe sapere quali bardi il giovane William ha ascoltato narrare storie nella piazza della sua città. Senza dubbio ci sono fonti che sono evidenti nelle opere di Shakespeare (testi latini, greci, …), ma è importante non dimenticare quella componente di cultura orale di cui non rimane attestazione. E ovviamente a questo si aggiungono il talento e la genialità dell’autore.
Il workshop di Paola e Michael vuole ricreare questo percorso, accompagnando i partecipanti in un processo di elaborazione e ri-elaborazione delle fonti simile a quello operato da Shakespeare. Questo si traduce in fornire agli storytellers partecipanti una serie di fonti a cui Shakespeare probabilmente si è ispirato, affiancarle al lavoro del bardo, e poi guidarli nell’atto di infondere a questo materiale semilavorato la propria inventiva personale.
Ci siamo rimessi in piedi per qualche esercizio di riscaldamento fisico, e poi siamo stati divisi in due gruppi. Uno è andato in un’altra stanza con Michael, uno è rimasto nella sala in cui eravamo con Paola. Ci siamo seduti in cerchio e Paola ci ha raccontato una storia, chiedendoci poi di ri-raccontarla come gruppo.
Quando Michael e gli altri partecipanti sono tornati, ogni gruppo ha raccontato la propria storia all’altro. Poi abbiamo riflettuto insieme per individuare le buone pratiche da applicare quando si lavora in modo collettivo.
Innanzitutto è importante che ogni narratore costruisca le proprie immagini della storia e poi le descriva agli altri. Fatto questo, i membri del gruppo devono confrontarsi fino ad arrivare a una serie di immagini che siano condivise. Per costruire le immagini si può fare ricorso alla propria esperienza: se siamo esperti di botanica, possiamo inserire piante e fiori nelle nostre storie e magari renderli elementi centrali del nostro “quadro” di riferimento. Possiamo anche arricchire ciò che sappiamo con informazioni nuove, fare ricerche mirate (ad esempio, osservare quadri dell’epoca in cui è ambientata la nostra storia per descrivere gli abiti dei personaggi), ma non bisogna farsi prendere troppo la mano: in qualità di storytellers, ci è concesso supplire a ciò che non sappiamo con la fantasia.
Nel pomeriggio, il lavoro è ripreso proprio dalle immagini. Alcuni di noi hanno descritto i loro “quadri” e gli altri hanno fatto domande per aiutarli a renderli più precisi e dettagliati. Poi il discorso è passato alla sonorità della lingua di Shakespeare. Paola ha spiegato dettagliatamente che cos’è il pentametro giambico e come il Bardo lo ha usato per dare una sonorità precisa alle sue opere. Dopo avere ascoltato vari esempi, ci siamo divertiti a ripetere le famose battute delle streghe di Macbeth (“Double double Toil and trouble …”) seguendo il ritmo con il corpo fino a ricreare un vero e proprio Sabba.
Il pomeriggio è proseguito con degli esercizi di cambio della focalizzazione guidati da Michael, che ci ha chiesto di camminare liberamente nella stanza spostando il nostro focus di attenzione dal nostro corpo, alla stanza, alle persone intorno a noi, e poi proiettandoci in alto oltre il soffitto (dimensione celeste) e in basso, sotto al pavimento (dimensione infernale), il tutto accompagnando il lavoro del corpo con l’emissione della voce.
La giornata si è chiusa con la divisione in gruppi di lavoro e l’assegnazione di storie che hanno presumibilmente fornito ispirazione a Shakespeare per alcune delle sue opere più famose.
SECONDO GIORNO (mercoledì 29 giugno 2016)
La mattina è iniziata con una sessione di massaggio a gruppi di tre, molto gradita da tutti. A questa, sono seguiti esercizi sulla voce, per liberare questo canale espressivo. Prima abbiamo dato vita a una sfera d’oro e l’abbiamo fatta volare per tutta la stanza. Poi ci siamo focalizzati sul trovare un suono per un’immagine a scelta della storia assegnataci e l’abbiamo sviluppata in una combinazione di suono e movimento. Infine abbiamo raccontato quel pezzo di storia cercando di mantenere l’intensità trovata con l’esercizio. Per me l’uso della voce costituisce spesso un ostacolo ed è stato molto bello lavorare proprio su questo e “liberare” questo canale.
Siamo quindi passati a parlare di struttura della storia con Michael. Quando si lavora su una storia è importante identificare i segmenti che la compongono (chunks). E’ importante quando lavoriamo da soli e fondamentale se lavoriamo in gruppo: i segmenti in cui i membri dividono la storia devono coincidere.
Quando facciamo musica, se vogliamo cambiare il ritmo, cambiamo le pause. Questo accade anche con le storie: per controllare il ritmo di una storia dobbiamo manipolare le pause fra un segmento e l’altro. “Tendiamo a riempire quelle pause di parole per mostrare che ci stiamo dando da fare, ma il pubblico (e anche la storia) ha bisogno di respirare,” dice Michael.
Per fornirci un esempio, Michael ci ha raccontato una storia evidenziando i chunks e mostrando come (quasi sempre) la storia inizi con una introduzione (presentazione dei personaggi, del luogo, eccetera) a cui segue il corpo della narrazione. Dopo avere riflettuto insieme sull’esempio, ci siamo divisi nei vari gruppi e abbiamo lavorato alla segmentazione (chunking) delle nostre storie.
Dopo il pranzo, il lavoro è ripreso con un esercizio a coppie: a turno ma senza deciderlo a voce, una persona guida e l’altra segue, l’unico punto di contatto fra i due è la punta dell’indice. L’esercizio si è complicato quando è stato ammesso lo “scambio di coppia” e, al movimento, si è aggiunta la richiesta di raccontare all’altro/a un pezzo della storia in lavorazione.
Dato che il materiale con cui stavamo lavorando era di stampo decisamente monumentale ed epico, per aiutarci a esprimere la dimensione grandiosa Michael e Paola ci hanno chiesto di immaginare i nostri quadri come arazzi grandi come tutta la parete e poi ci hanno sfidato a convincere gli altri a comprarli. Hanno diviso la stanza a metà e chiesto a ogni metà di stare in silenzio mentre l’altra metà dava vita al mercato. E’ stato uno dei momenti più esilaranti di tutto il laboratorio.
Ci siamo quindi seduti in cerchio e Paola ci ha indicato vari segmenti nelle opere di Shakespeare collegati alle storie che ci avevano distribuito. Ci siamo ridivisi nei gruppi di lavoro e abbiamo passato un po’ di tempo a sperimentare l’effetto che si otteneva inserendo pezzi di testo shakesperiano all’interno della narrazione delle storie assegnataci. Durante questo esercizio, ho capito quando Paola diceva che le due dimensioni si alimentano a vicenda: il testo shakesperiano regalava una ricchezza di immagini e soprattutto di emozioni che non avevo trovato nella narrazione, e la narrazione completava il testo e lo rendeva più vicino veicolandone gli intenti in un linguaggio comune e di facile accesso.
Per chiudere la giornata, Michael e Paola ci hanno illustrato come gestire la presenza di più storyteller sulla scena per raggiungere un effetto armonioso.
Bisogna immaginare due livelli: uno anteriore (davanti) e uno posteriore (dietro). Così come nella musica c’è il forte e il piano, così se ci sono due storytellers uno è in major (davanti) e uno è in minor (dietro). Se uno sta nella sezione sinistra, l’altro starà sulla destra e viceversa (stage balancing). Non dev’esserci mai simmetria, i narratori devono trovarsi sempre su piani diversi. Ovviamente questa è una regola generale e come ogni regola può essere infranta, ma se questo succede deve succedere con intenzione.
TERZO GIORNO (giovedì 30 giugno 2016)
La mattina è iniziata con degli esercizi di contact improvisation e degli esercizi per prendere coscienza della nostra cinesfera (kinesphere) secondo il metodo elaborato da Rudolph Laban.
Si è proseguito con una riflessione e degli esercizi sul contatto con il pubblico e sullo sguardo verso gli ascoltatori.
Al tempo di Shakespeare la quarta parete non esisteva e gli attori potevano rivolgersi direttamente al pubblico. La stessa cosa accade nello storytelling, che non mira a mettere in scena dei personaggi, ma a regalare al pubblico una storia. Questo regalo lo storyteller lo fa usando il proprio corpo e la propria voce, ma soprattutto essendo sé stesso/a, non vestendo i panni di un personaggio.
La condivisione di una storia dev’essere un momento piacevole e per questo Paola e Michael hanno suggerito di disporre il pubblico in cerchio o in due semicerchi, e di evitare le forme quadrate che mettono a disagio.
Inoltre, è importante che lo storyteller abbia una routine variata e che non guardi le persone sempre nello stesso modo (ad esempio “a radar”, da sinistra a destra e poi ritorno, e via così). Paola ci ha suggerito di immaginare che il pubblico sia diviso in cinque settori: dobbiamo sforzarci di trovare sequenze sempre nuove per far viaggiare il nostro sguardo sui volti degli ascoltatori.
Non dimentichiamo anche di dare attenzione a tutti i settori. Anche quando non possiamo vedere chiaramente i volti di chi ci ascolta, sappiamo dove sono seduti e dov’è il loro volto e possiamo mandare la nostra intenzione e la nostra intensità nella loro direzione. In questo modo, anche chi è seduto in ultima fila può sentire che gli viene data importanza.
Per sviluppare il discorso sull’empatia e gli sguardi, a questa riflessione è seguito un esercizio in cui abbiamo individuato reciprocamente elementi positivi, fisici e spirituali, costruendo un bagaglio di tesori di cui siamo i proprietari a cui ripensare nei momenti in cui sentiamo la nostra energia diminuire.
Poi abbiamo riflettuto su quanti e quali punti di vista possiamo adottare quando raccontiamo e abbiamo sperimentato narrandoci le nostre storie attraverso vari punti di vista: quello del narratore, quello del personaggio (impersonificazione, se esagerata diventa teatro), sopra la spalla di un personaggio, eccetera.
Nel pomeriggio, il lavoro si è concentrato sui cinque sensi. Quando raccontiamo una storia viene naturale concentrarsi sulla vista, su ciò che si vede, ma nella narrazione c’è spazio anche per gli altri quattro sensi. Michael e Paola ci hanno chiesto di scegliere un momento della storia e trovarvi tutti i suoni, poi gli odori, poi le sensazioni tattili, poi il gusto. Abbiamo lavorato in piccoli gruppi e per ogni senso ognuno dei noi ha raccontato agli altri membri del gruppo quel pezzettino di storia evidenziandone le informazioni sensoriali.
E’ stato quindi tempo di riunirsi nel gruppo di lavoro sulla storia per prepararsi per una presentazione pubblica dei risultati, che ha chiuso il workshop, a cui è seguito un momento di confronto e feedback fra partecipanti e istruttori.